“Ho fatto ciò che ho potuto, ho dipinto ciò che ho visto”: il testamento di Maurice de Vlaminck

Di Laura Corchia

Nel 1905 Georges Desvallières, vice direttore del Salon d’Automne, decise che avrebbero esposto in un’unica sala i pittori che, in seguito, vennero definiti Fauves, ‘belve sevagge’.

Passata alla storia come “la gabbia centrale”, questa sala comprendeva opere di Henri MatisseAlbert Marquet, André Derain, Henry Manguin, Charles Camoin e Maurice De Vlaminck.

La loro produzione era accomunata dall’uso di colori squillanti, forti, di notevole impatto visivo. I commentatori del tempo definirono questi pittori “buffoni” (J.B. Hall) e il loro lavoro come “spatolate senza forma di blu, rosso, giallo, verde, tutti mischiati, macchie di colore giustapposte senza ritmo o ragione, e lo sforzo brutale e ingenuo di un bambino che gioca con la sua scatola di colori” (M. Nicole). Le opere sono improntate ad una esasperata libertà esecutiva, memore degli insegnamenti di Van Gogh e di Gauguin.

L’associazione dei Fauves si smorzò molto presto: i pittori tedeschi ereditarono la follia dei colori, mentre i colleghi francesi presero a prestito quel gusto per l’arte africana allora imperante. Se Derain si convertì al classicismo e Braque intraprese la strada del cubismo, l’unico a replicare i quadri della gioventù fu De Vlaminck che, anche in vecchiaia, continuava a ripetere: “Il Fauvismo sono io”. 

Maurice de Vlaminck, La Périssoire à Chatou, 1906, oil on canvas
Maurice de Vlaminck, La Périssoire à Chatou, 1906, oil on canvas

Figlio di musicisti, Maudice de Vlaminck si dedicò alla pittura dopo l’incontro con Derain a Chatou. Temperamento istintivo e inquieto, espresse la sua forte personalità attraverso uno stile di grande immediatezza, esasperato nel segno e nelle gamme cromatiche, pure e contrastate, che trovò nei ritratti, nei paesaggi e nelle periferie urbane i temi più congeniali (Gli alberi rossi, 1906, Parigi, Musée national d’art moderne). Dopo la guerra, lasciò Parigi e andò a vivere in campagna. Nelle opere di questo periodo è rintracciabile il segno profondo che l’esperienza della guerra ha avuto sulla sua visione artistica.

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I suoi paesaggi acquistano una nuova fisionomia grazie all’influenza sempre maggiore dell’epressionismo, la tavolozza si fa più cupa e le atmosfere più inquietanti e drammatiche.
Le opere di questo periodo sono caratterizzate da strade di paese silenziose e deserte, che si perdono verso l’orizzonte in una ritrovata profondità prospettica.
La natura diventa una presenza minacciosa e ostile, simbolo di una visione drammatica dell’esistenza; anche il cielo è dipinto con colori freddi ed è quasi sempre pieno di nuvole che preannunciano la pioggia.
Le pennellate, che nelle opere del periodo fauves erano brillanti e agili, sembrano trascinate a fatica sulla tela e danno l’idea di un forte pessimismo esistenziale.

Vlaminck, arrestato nel 1944 per collaborazionismo con i nazisti ed emarginato dopo la guerra, morì il 10 ottobre 1958.

Due anni prima di morire, affidò a questo testamento il suo pensiero di artista e di uomo:

«In questo giorno compio ottanta anni. Sono sorpreso di poter ancora guardare il cielo, e di aver potuto resistere fino a oggi alla barbarie scientifica della specie umana civilizzata, e di non essere già da tempo sei piedi sotto terra. La vita si può palpare con le dita. Essa appare agli occhi, essa si offre ai sensi. Io dono gratuitamente a tutti e a tutte le profonde emozioni, il cui ricordo è ancora fresco e vivo nel mio vecchio cuore, che mi hanno procurato i quadri di Ruysdael, Brueghel, Courbet, Cézanne e Van Gogh…e faccio dono senza rimpianto, senza invidia, di ciò che non amo e che rifiuto: il latte pastorizzato, i prodotti farmaceutici, i surrogati, i rebus decorativi dell’Arte astratta. Perché, malgrado la mia età avanzata, continuo a gustare la cucina francese, e in particolare il pollo ai funghi, la bistecca alle mele e la pernice alla verza, senza mescolare cucina e farmacia, campagna e case di cura, lavoro e produzione, difetti e amore […] Io lascio in eredità ai giovani pittori tutti i fiori dei campi, le rive dei ruscelli, le nuvole bianche e nere che passano sulle pianure, i fiumi, i boschi e i grandi alberi, le colline, le strade, i piccoli villaggi che l’inverno copre di neve, tutti i prati con i loro magnifici fiori ed anche gli uccelli e le farfalle…
Questi beni inestimabili che in ogni stagione rinascono, fioriscono, palpitano, questi beni che sono la luce e l’ombra, il colore del cielo e dell’acqua, non dovremmo ricordare spesso che sono il nostro preziosissimo patrimonio ispiratore di capolavori? Un tesoro comune sul quale il fisco perde i suoi diritti e che può lasciare in eredità, senza scomodare il notaio, un vecchio pittore, i cui occhi abbagliati conservano ancora l’immagine dei campi, dei prati, il cui orecchio conserva ancora lo scroscio delle sorgenti…Tutto questo lo abbiamo goduto abbastanza? Lo avete ammirato abbastanza? Avete pienamente gustato ciò che commuove nell’alba che nasce e nel giorno che non tornerà più, per fissarne sulla tela il sentimento profondo ed eterno?

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