Gustave Moreau: sogni a punta di pennello

di Laura Corchia

“Sono così portato ai sogni, alle fantasmagorie dell’immaginazione, che mi accosto a ogni lettura o racconto di usi e civiltà lontane o scomparse con una purezza di cuore e un’istintiva ingenuità, tali da farmi sentire un bambino. Com’è possibile amare, capire o sognare l’India, le foreste del Nuovo Mondo, gli incredibili arcipelaghi dell’Oceano Orientale e la flora antidiluviana dell’Africa centrale, con uno spirito scettico e incredulo o, ancor peggio, con una pretenziosa e dotta disposizione al paradosso? Li conosco questi amanti dell’India, culla della civiltà, che fanno la prima colazione con Budda, il pranzo con Siva e la cena con Bida. Oh, sogno dei presuntuosi, dei dotti, degli insensibili, degli uomini di partito”. 

(Gustave Moreau, Note e aforismi, s.d.)

Una feconda fantasia fatta di immagini raffinate e sensuali. Un’arte che rivela un lato fantastico e uno spirito eclettico, creata attraverso la rielaborazione di spunti medievali, repertori antichi e ampi brani tratti dal Rinascimento.

A lungo trascurato dalla critica, Gustave Moreau fu forse il pittore più “letterato” tra i pittori francesi dell’Ottocento e fu riscoperto dai simbolisti, che lo considerarono un precursore del loro movimento.

Gustave Moreau, Galatea, 1880
Gustave Moreau, Galatea, 1880

Parigino di nascita, venne al mondo il 6 aprile 1826. Il padre, un architetto neoclassico, gli offrì un’educazione nutrita dai capolavori della letteratura occidentale (tra i quali Ovidio e Dante Alighieri) e da importanti trattati d’arte. La madre gli trasmise invece la passione per la musica.

Dotato di un carattere schivo e ombroso, Gustave passava molto tempo chino sui fogli da disegno, nell’intento di assimilare l’arte dei grandi maestri. Nel 1857 compì un viaggio in Italia, durante il quale ebbe modo di conoscere più da vicino l’arte romana, fiorentina e veneziana. Nella città lagunare rimase affascinato dai dipinti di Vittore Carpaccio, al punto da trarre poi spunto per le proprie Chimere.

Rientrato a Parigi, mentre i suoi colleghi pittori si sforzavano di copiare dal vero e di dare alle loro opere un’impronta accademica, Moreau si rifugiò sempre di più nei suoi sogni, elaborando opere oniriche e fantastiche, seppur ispirate ai miti classici, alle storie della Bibbia e alle leggende. Tra i soggetti più replicati, vi è senza dubbio Salomé, la principessa che con la sua danza seducente riuscì ad ottenere la testa del Battista.

Leggi anche  Mario Benedetti: "Facciamo un patto". Con uno scatto di Mario De Biasi
Gustave Moreau, L'Apparizione, 1876
Gustave Moreau, L’Apparizione, 1876

In L’Apparizione, la giovane donna è presentata come la donna fatale che già avuto la sua ricompensa: la testa mozza del Battista che fluttua nell’aria come un’apparizione. Lo scrittore Karl Huysmans, attraverso le parole del protagonista Des Esseintes, così descrive l’opera: “Là, il palazzo di Erode si slanciava come un Alhambra su leggere colonne iridate di piastrelle moresche, che sembravano sigillate da un calcestruzzo d’argento, da un cemento d’oro; arabeschi partivano da losanghe di lapislazzuli, si svolgevano lungo le cupole dove, su intarsi di madreperla, si arrampicavano bagliori di arcobaleno, fuochi di prisma. (…) Il delitto era compiuto; ora il carnefice stava impassibile, con le mani sul pomo della lunga spada, macchiata di sangue.

La testa decapitata del santo si era sollevata dal piatto posato sul pavimento e guardava, livida, con le labbra esangui, aperte, con il collo scarlatto, gocciolante lacrime. Un mosaico circondava il volto da cui si sprigionava un’aureola irradiandosi in fasci di luce sotto i portici, illuminando la spaventosa ascesa della testa, accendendo il globo vitreo delle pupille, fissate, quasi aggrappate alla danzatrice. Con un gesto d’orrore, Salomè respinge la terrificante visione che la inchioda, immobile, sulle punte; i suoi occhi si dilatano, la mano stringe in modo convulso la gola. È quasi nuda; nella frenesia della danza, i veli si sono sciolti, i broccati sono caduti; é vestita solo di gioielli e lucidi minerali; un corpetto, come un busto, le stringe la vitae, a mo’ di superbo fermaglio, un meraviglioso gioiello dardeggia lampi di luce nell’incavo dei seni; più in basso, una cintura le circonda le anche, nasconde la parte superiore delle cosce battute da un gigantesco ciondolo dove scorre un fiume di carbonchi e di smeraldi; infine, sul corpo rimasto nudo, tra il corpetto e la cintura, il ventre s’inarca, scavato da un ombelico il cui foro sembra un sigillo di onice, dai toni lattiginosi, dalle tinte di un rosa d’unghia”. 

Per realizzare il suo acquerello, Moreau attinge a più fonti: la testa del Battista rievoca una stampa giapponese che l’artista aveva avuto occasione di vedere al Salon di Parigi del 1869 presso il Palais de l’Industrie o la testa di Medusa brandita da Perseo nell’opera in bronzo del Cellini, mentre l’architettura si ispira all’Alhambra di Granada.

Leggi anche  Odilon Redon: il linguaggio dell'anima
Full title: Saint George and the Dragon Artist: Gustave Moreau Date made: 1889-90 Source: http://www.nationalgalleryimages.co.uk/ Contact: picture.library@nationalgallery.co.uk Copyright © The National Gallery, London
Gustave Moreau, San Giorgio e il drago, 1869

I dipinti di Moreau si presentano così come un insieme di simboli da decifrare, un prezioso magma composto da sogni e da impasti cromatici fatti di colori vivi e forti. I suoi temi, affrontati talvolta in maniera quasi ossessiva, sono il frutto di innumerevoli schizzi a matita.

La sua arte e la sua poetica sono state magistralmente riassunte da  Marcel Proust in Note sul mondo misterioso di Gustave Moreau (1898): “…quadri antichi che s’intuisce subito che non sono di un antico ma di quell’uomo che, solo, quando dipingeva i suoi sogni adunava intorno a sé quelle stoffe rosse, quelle vesti verdi costellate di fiori e di gemme, quelle teste gravi che sono di cortigiane, quelle teste dolci che sono di eroi, quelle gole montuose che sono il paese dove vivono tutte le cose da lui dipinte, perché la vita non diserta le cose per confluire tutta negli esseri, perché la montagna è leggendaria e la persona non è tale, perché il misterioso dell’azione è espresso da tutto quanto il viso della persona riserva (l’eroe che ha l’aria dolce di una vergine, la cortigiana che ha l’aria grave di una santa, la Musa che ha l’aria insignificante di una viaggiatrice non chiariscono minimamente l’azione che non sembrano compiere) e da tutto quanto il paesaggio riserva di complicità; perché gli antri nascondono mostri, gli uccelli dicono presagi, le nuvole gocciano sangue, e perché l’ora è misteriosa e sembra si intenerisca nel cielo di quanto si compie in modo misterioso sulla terra.”

 

Leggi anche  Felice Casorati e il "Realismo magico": il sottile filo dell'inquietudine

RIPRODUZIONE RISERVATA