Giotto agli Scrovegni: non è tutto affresco

di Laura Corchia

Quando si pensa a Giotto, l’immagine che viene subito alla mente è la bellissima decorazione della Basilica di Assisi e i non meno mirabili affreschi eseguiti per la Cappella degli Scrovegni. Intitolata a Maria Vergine Annunziata, la cappella fu commissionata da Enrico Scrovegni, un ricchissimo banchiere padovano, forse per espiare le colpe derivanti da un mestiere che lo portava a maneggiare molto denaro. Giotto intervenne tra il 1303 e il 1305, coadiuvato da una quarantina di collaboratori.

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Sono state calcolate 625 “giornate” di lavoro. Le pitture murali ricoprono l’intera superficie e si dispongono su quattro fasce. Il ciclo è incentrato sul tema della salvezza, una sequenza di storie tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento che culminavano nella morte e resurrezione del Figlio di Dio e nel Giudizio UniversaleIn questo contributo, non ci soffermeremo sugli aspetti iconografici, ma approfondiremo la tecnica usata da Giotto. I restauri, condotti dal compianto Giuseppe Basile, hanno infatti gettato nuova luce sulle tecniche e sui materiali cari all’artista fiorentino.

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Scrive Giuseppe Basile: “La caratteristica principale di Giotto sembra essere quella di sapere osservare con incredibile capacità di penetrazione la realtà in tutti i suoi aspetti in funzione della sua rappresentazione artistica e di essere riuscito a mettere a punto gli strumenti idonei a raggiungere lo scopo, sia sul piano formale che su quello tecnico.

Si è sempre detto, e si continua a ripetere, che il ciclo Scrovegni costituisce uno degli esempi più maturi e precoci di pittura a fresco: questo è vero ma non è tutto.

La caratteristica principale di Giotto sembra essere quella di sapere osservare con incredibile capacità di penetrazione la realtà in tutti i suoi aspetti in funzione della sua rappresentazione artistica e di essere riuscito a mettere a punto gli strumenti idonei a raggiungere lo scopo, sia sul piano formale che su quello tecnico.

Si è sempre detto, e si continua a ripetere, che il ciclo Scrovegni costituisce uno degli esempi più maturi e precoci di pittura a fresco: questo è vero ma non è tutto.

In realtà si tratta – come si è avuto modo di constatare nel corso del restauro – di un rarissimo esempio di pittura murale in cui sono state impiegate tutte le tecniche allora (e poi) conosciute: accanto a quelle più diffuse (a fresco e a tempera), altre piuttosto rare (a calce a secco, ad olio) o riscoperte proprio da Giotto dopo secoli di oblio (lo “stucco romano” per dipingere il finto marmo, ben conosciuto in epoca romana ma ignoto allo stesso pittore quando dipingeva le Storie francescane della Basilica Superiore di S. Francesco in Assisi). 

Anche rispetto ai materiali Giotto dimostra di saperne trarre gli effetti migliori grazie ad una ineguagliata maestria tecnica, tanto da avere tratto in inganno intere generazioni di critici quando, per esempio, hanno creduto che egli avesse usato per le campiture azzurre il lapislazzuli invece dell’assai più comune (ed economica ) azzurrite.

Ciò non vuol dire che egli ignori o si neghi la possibilità di impiegare anche materiali particolarmente rari e preziosi, e lo dimostra l’uso non raro di lacche o l’abbondanza (ora solo parzialmente percepibile) delle dorature: ma basterebbe notare con quale sottigliezza di esiti diversi utilizza i due pigmenti bianchi allora conosciuti, il Bianco San Giovanni (calce pura polverizzata) e la biacca (pigmento artificiale a base di piombo), ovvero come riesca a costruire interi panneggi impiegando 2 soli pigmenti (il Bianco San Giovanni ed il “cinabrese”) col solo variarne la proporzione a seconda che intenda creare le zone in ombra o quelle in luce.

Ciò accade, per fare un solo esempio, nell’Evangelista Giovanni del Compianto su Cristo morto: a parte tutto testimonianza incontestabile, assieme ai numerosi esempi di cangiantismo, della capacità di Giotto di risolvere l’immagine in puro colore, senza nulla perdere in quelli che sono stati sempre riconosciuti come i caratteri formali più tipici del pittore, intendo dire il senso plastico e volumetrico.    

E a conferma della genialità dell’artista basterà rilevare in che modo abbia risolto il problema a quei tempi (cioè prima che venissero messi a punto, nel secolo successivo, strumenti per la trasposizione meccanica del disegno sulla parete da dipingere quali il cartone e lo spolvero: cfr. appendice ) difficilissimo di come passare dal disegno in piccolo su carta o pergamena all’immagine a grandezza reale sul supporto murario: egli impiega un certo numero di matrici sotto forma di sagome ma variandole continuamente sicché non esiste una figura identica ad un’altra anche se è indubbio che il punto di partenza è lo stesso”.

Non affresco, dunque, ma un completo repertorio di tecniche e di procedimenti. La Cappella degli Scrovegni rappresenta un testo per immagini, un’intero repertorio di segreti di bottega, gelosamente tramandati da maestro ad allievi.

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Fonte: www.giuseppebasile.org