Gesso, il calco dal vero: scultura “a fior di pelle” talvolta mortale

di Laura Corchia

Nel corso dell’Ottocento, molto diffusa era la pericolosa pratica di scolpire il gesso attraverso calchi tratti da modelli vivi.

Per eseguirla si faceva ricorso al gesso da presa, noto fin dal Neolitico: a Gerico sono stati scoperti crani umani coperti da uno strato di gesso e dipinti, risalenti all’incirca a 9000 anni fa. Il gesso va impastato con acqua fino a quando non si ottiene una miscela cremosa e senza grumi; se lasciato riposare, l’impasto “fa presa” velocemente, cioè inizia a consolidarsi, e si essicca in poco tempo. Il gesso si può lavorare sia per intaglio (da blocchi), sia per modellato, costruendo la figura su un’armatura o uno scheletro metallico, e rinforzandola con l’impiego di iuta. Una volta asciutta, la scultura può essere finita con patinature a cera, olio di lino, gommalacca ecc. Per scolpire si utilizzano sgorbie, spatole, raschietti; lime e raspe servono per la finitura.

Per ottenere pose e forme più naturali, si faceva in passato ricorso ad un modello in carne e ossa. Tale pratica richiedeva una notevole destrezza, come è attestato da un manuale edito da Lebrun e Magnier nel 1843: Le Moulage. 

Edouard Dantan, Un calco dal vero, 1887
Edouard Dantan, Un calco dal vero, 1887

Il dipinto di Edouard Dantan mostra bene come avveniva la procedura: il modello veniva fatto salire su un piedistallo e la sua pelle veniva unta completamente con una sostanza grassa, in genere burro o olio di oliva. L’artista aggiungeva sale alla matrice, di forma cava, per accelerare la presa. Il modello doveva restare immobile fino alla presa del gesso non doveva fare attenzione all’espressione del volto, dal momento che “gli occhi chiusi e la bocca spesso di traverso sono altrettanti impedimenti alla fedeltà, al gradimento di questa impronta”.

A seconda della parte del corpo da riprodurre, il trattato Le Moulage forniva delle precise istruzioni. Se, ad esempio, occorreva riprodurre il busto, si suggeriva di far sedere il modello “su una sedia senza schienale, appoggiando le sue braccia sull’estremità superiore dello schienale di una poltrona sistemata davanti a lui per sostenerle. (…) Prima di ungere occorre proteggere con un panno gli abiti che coprono le parti inferiori del modello, e questo panno deve formare una specie di ciambella in fondo al busto”. Vengono menzionati anche altri metodi, più o meno antichi, che ci permettono di capire il profondo disagio avvertito dai modelli, vere e proprie vittime alla mercé dell’artista‑torturatore: “L’impiego della mussola è di grande utilità per l’impronta del petto e del busto, poiché contrasta efficacemente le screpolature che la respirazione causa al calco di queste parti”. Categoricamente sconsigliata la realizzazione del calco di una persona intera in una sola volta, giacché l’artefice avrebbe rischiato di “vedersi morire tra le mani il modello”.

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Quest’ultima raccomandazione non era superflua. Alla fine dell’Ottocento, infatti, il pittore Benjamin Haydon (1786‑1846) volle il calco di un suo modello, Wilson: “L’esecuzione del calco per poco non fu fatale a Wilson, perché Haydon, non contento di prendere ogni arto separatamente, aveva costruito una sorta di muro attorno al corpo nudo di Wilson e vi aveva versato sette moggi di gesso, che indurendosi cominciarono a soffocare l’infelice, liberato appena in tempo”.

Altrettanto difficoltoso era l’ottenimento del calco del volto. I capelli avrebbero dovuto essere raccolti con una pomata, in modo da “formare una massa compatta. Se il modello è un uomo, dev’essere perfettamente rasato di fresco. (¼) Quando è tutto preparato, (…) con un pennello fine si applica il gesso, incominciando dalla fronte e dalle guance e terminando con la bocca e il naso”. A questo punto ci si sarebbe dovuti occupare della posa dei fili: “l’uno corre al centro della testa, sale in linea diretta alla sua sommità e scende davanti dividendo la fronte, il naso, la bocca e il mento in due parti uguali; il secondo incrocia il primo e separa la testa in due porzioni uguali, una davanti e l’altra dietro”.

Per ovvie ragioni, più facile era ottenere una maschera funebre. Per eseguirle si ricorreva all’uso di calchi in cera o in gesso, applicati sulla faccia poco dopo la morte del soggetto da ritrarre: da questo negativo venivano poi prodotte le maschere funerarie vere e proprie. Si trattava di un processo che pochi si potevano permettere e dunque riservato a un’élite composta da nobili e sovrani – ma anche a personalità di spicco dell’arte, della letteratura o della filosofia. È grazie a questi calchi che oggi conosciamo con esattezza il volto di molti grandi del passato: Dante, Leopardi, Voltaire, Robespierre, Pascal, Newton e innumerevoli altri ancora. La differenza con un ritratto dipinto o una scultura dal vivo è evidente: nelle maschere mortuarie non è possibile l’idealizzazione, lo scultore riproduce senza imbellettare, e ogni minimo difetto nel volto rimane impresso così come ogni grazia. Non soltanto, alcune maschere mostrano volti con fattezze già cadaveriche, occhi infossati, guance molli e cadenti, mascelle allentate.

Il calco degli animali si otteneva invece servendosi di soggetti morti, tramortiti o cloroformizzati. Una testimonianza è offerta da Gaudķ, che effettò il calco di un asino per il gruppo scultoreo della Fuga in Egitto destinato alla  Sagrada Familia: “Vedendo che l’animale scalciava e respingeva i tecnici, l’ho fatto issare sostenuto sotto il ventre. Quando si è sentito sospeso nel vuoto, è rimasto tranquillo e da quel momento è stato possibile prenderne l’impronta senza difficoltà”.

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Il calco dal vero, legato al culto del ricordo, fu visto con una certa benevolenza negli ambienti borghesi grazie alle maschere, modellate dal vero o mortuarie, ai calchi delle mani di artisti, di personaggi politici, letterari o mondani, come la contessa di Castiglione. Testimonianze di affetto più contenute si accumularono talvolta nelle case dando così luogo alla formazione di veri e propri reliquiari laici.

Il calco dal vero, tecnica tipica dello scultore, opera documentaria o ricordo affettivo, per la sua perfetta raffigurazione della realtà ha subito sollevato vivaci polemiche nel corso del secolo. Per Baudelaire, “lo scopo della scultura non è competere con i calchi”, Rodin da parte sua sostiene che, “imitare fedelmente la natura non è lo scopo dell’arte. Un calco dal vero è la copia più esatta che si possa ottenere, ma esso è qualcosa di inanimato poiché, non avendo né il movimento, né l’eloquenza, non esprime il tutto”.

Jules Dalou, il maestro del realismo francese, ha perfettamente riassunto nelle sue annotazioni personali l’impressione condivisa dai più sul calco dal vero: “Né il calco dal vero, né la fotografia, non sono e non saranno mai forme d’arte. Quest’ultima esiste solo attraverso l’interpretazione della natura, qualunque essa sia, […] è lo spirito dalla natura che deve essere ricercato a modo proprio e in base alle esigenze del proprio soggetto e del suo tempo. Tuttavia, sforzarsi soltanto di darne una raffigurazione fedele è un errore grossolano”.

Ai nostri giorni, alcuni calchi dal vero del XIX secolo non smettono di stupire per la freschezza e la vivacità delle pose del modello, spesso femminile, per la libertà e l’inventiva delle “inquadrature” scelte dal formatore.

Nel corso del XIX secolo, in ogni bottega i calchi dal vero facevano bella mostra di sé appesi alle pareti o allineati su una mensola. Alcuni artisti (Geoffroy-Dechaume, Vela) ne curavano da soli la realizzazione o li commissionavano ad un formatore di chiara fama.

Tappa del processo creativo dello scultore, il calco dal vero fu praticato su modelli più impensati, come la Veste da camera che Rodin modellò nel 1897 per le sue ricerche legate all’elaborazione della statua di Balzac. Il fondo dello scultore Adolphe-Victor Geoffroy-Dechaume, entrato da poco a far parte del museo dei Monumenti francesi, eccezionale per la qualità e la quantità dei calchi dal vero che sono in esso conservati, (i frammenti di corpo provenienti dalle botteghe dello scultore Vincenzo Vela), testimonia la vivacità e il virtuosismo di una tecnica diffusa ma il più delle volte giudicata sospetta. Molti artisti, come Gustave Moreau acquistavano nei negozi specializzati calchi di braccia, gambe, piedi… Appesi alle pareti della bottega, i gessi erano così utilizzati come modelli permanenti e contribuivano a dare un tono all’ambiente, come illustra chiaramente il celebre quadro Parete di Bottega (1872) del pittore Adolph Menzel, opera eccezionale concessa in prestito dalla Hamburger Kunsthalle.

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L’accusa, fondata oppure no, che riteneva il calco dal vero come l’ultima offesa rivolta alla creazione dell’artista, ha scandito la storia della scultura della seconda metà del XIX secolo. Questa polemica si manifesta in modo ricorrente a proposito di ogni opera la cui fedeltà rispetto al reale oltrepassa i limiti della tradizione accademica; lo scultore è allora sospettato di inserire direttamente un frammento ottenuto tramite un calco dal vero nella composizione della sua opera. Da un lato, se per alcuni artisti l’accusa si è rivelata fondata, come nel caso di Clésinger e la Donna morsa da un serpente (1847) o di e Cléo de Mérode (1896), per altri artisti non è così. Questo è il caso di Rodin e della sua L’Età del bronzo (1877). Questa proteste sottolineano altresì le violente reazioni di una parte della critica rispetto alla generalizzazione dell’illusionismo in scultura, che conosce il suo apice nel corso degli anni ottanta del XIX secolo.

La tecnica del calco dal vero se da un lato riflette le sfide del realismo in scultura, dall’altro essa invade il campo della rappresentazione e dell’appropriazione del corpo umano o dei suoi frammenti, appropriazioni che, nel corso del XIX secolo, alcune discipline scientifiche o perlomeno quelle che all’epoca erano considerate tali, hanno classificato secondo un determinato sistema per scopi prettamente didattici.

A partire dagli anni quaranta dal XIX secolo il calco dal vero viene utilizzato sempre di più in molte discipline scientifiche. Per motivi di insegnamento o di studio, frenologi, antropologi, medici, botanici, zoologi… eseguono calchi e raccolgono una grande quantità di impronte, come testimonia la raccolta di patologie dermatologiche del museo dell’Ospedale Saint-Louis, la collezione di calchi di ortaggi dipinti con colori naturali dell’azienda agricola Vilmorin o le spettacolari impronte policrome di funghi riuniti al Museo di Storia naturale di Nizza dal naturalista Jean-Baptiste Barla tra il 1855 e il 1895. Il conseguente massiccio ricorso alla tecnica del calco, contribuì a rafforzare lo status che i critici d’arte e gli scultori più esigenti riconoscevano al calco: il suo essere un documento di lavoro.

Fonte: Stile Arte

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