Edward Hopper e “Nighthawks”: narrare la solitudine in una grande città

di Laura Corchia

Vi è mai successo di ritrovarvi di notte, in un locale semi deserto, a bere un drink in compagnia di qualche sconosciuto e di avvertire un profondo senso di solitudine? Probabilmente, è ciò che è accaduto ai tre personaggi seduti al bancone del bar raffigurato da Edward Hopper in Nighthawks.

Siamo nel 1942 e l’America si è appena ripresa dalla terribile Grande Depressione del 1929. L’uomo si sente sopraffatto dalle grandi metropoli, piccolo rispetto ai grandi edifici che le compongono. Chiuso nel proprio mondo interiore, difficilmente comunica con gli altri, portando dentro di sé tutto il “male di vivere”, come direbbe Eugenio Montale.

Nighthawks, 1942
Nighthawks, 1942


Grande osservatore della realtà a lui contemporanea, Hopper narra quell’America troppo grande e troppo caotica, indaga psicologicamente i suoi personaggi, scava le pieghe del loro animo. La sua “lente fotografica” si posa su edifici e persone, raccontando di vite consumate a guardare al di là di una finestra, di volti pensierosi e chini su una tazza di caffè, immersi in chissà quali pensieri.

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Nighthawks è uno dei suoi più grandi capolavori, nato dall’osservazione di un ristorante posto all’incrocio di due vie del Greenwich village. L’artista inquadra la scena da fuori, osservando ciò che accade al di là del grande vetro. Affascinato dalla notte, dal silenzio che si respira nelle strade vuote, Hopper raffigura tre personaggi seduti sugli sgabelli e un barman che li sta servendo. Due di loro, un uomo ed una donna dalla chioma rossa, sono seduti accanto, ma non comunicano. L’occhio dell’osservatore si posa sull’interno del locale, illuminato dalla luce artificiale dei neon e sull’esterno, attirato dalla città fantasma.

In un’intervista a Katherine Kuh, Hopper ha dichiarato di aver voluto raffigurare “la solitudine di una grande città”. Molte notizie su quest’opera ci vengono dal diario dell’artista, compilato insieme alla moglie, Josephine Hopper. Proprio grazie a lettere ed appunti, sappiamo che l’artista posò per uno dei due uomini riflettendosi allo specchio, mentre Josephine prestò le fattezze per la donna.

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Dipinto poco prima dell’ingresso dell’America nella seconda guerra mondiale, Nighthawks è il frutto di diversi studi preparatori. Ben diciannove schizzi testimoniano il lavoro meticoloso dell’artista, il quale utilizza pochi toni (prevalgono varie tonalità di verde, il giallo  e il marrone) e una vernice bianca a base di zinco per rendere l’effetto della luce dei neon.

Quest’opera, all’apparenza una semplice raffigurazione urbana, vuole raccontare molto di più. Vuole essere un’indagine sociologica e psicologica,  il documento di un’epoca ormai lontana. Ciò che accomuna l’osservatore di oggi al riguardante di ieri è la sensazione di solitudine, quel tormento interiore che forse accompagna l’uomo di tutti i tempi, quel disagio che l’accompagna soprattutto di notte.

Charles Burchfield dichiarò che “i posteri impareranno di più sulla nostra vita dall’opera di Hopper che non da tutte le analisi sociologiche, i commenti politici e gli sguaiati titoli di giornale di oggi. Guardate Nottambuli con quella evocazione della vasta solitudine della città, come appare agli ultimi sbandati. […] Questi quadri cono un commento incredibilmente penetrante della nostra vita”.

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BIBLIOGRAFIA: Hopper, in “I classici dell’arte”, collana a cura del Corriere della sera, Rizzoli, Skira.