Dentro l’opera: L’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini. Il capolavoro della sua vita

di Fabio Strazzullo

“Il voler io qui descrivere le meraviglie, che in ogni sua parte scuopre agli occhi d’ognuno questa grande opera, sarebbe un faticare assai, per poi nulla concludere; perché l’occhio solamente, e non l’orecchio ne può formar concetto bastante: Conciossiachè e per lo disegno, e per la proporzione, e per l’arie delle teste, e squisitezza d’ogni parte, e per la finezza del lavoro, ell’è tale, che supera ogni immaginazione, e sempre fu, e sempre sarà agl’occhi de’ periti, e degli indotti dell’arte, un Miracolo dell’arte; tanto ch’ella dicesi per eccellenza la Dafne del Bernino, senz’altro più.”
(Filippo Baldinucci)
L’opera venne realizzata tra il 1622 e il 1625 dallo scultore Gian Lorenzo Bernini per volere del cardinal Scipione Borghese ed è l’ultima commissione a far parte di quella serie di gruppi scultori sul tema mitologico esposti nella Galleria Borghese di Roma, insieme a quello biblico del David.

E a tal proposito, sappiamo che Bernini iniziò l’Apollo e Dafne nel 1622, ma il lavoro fu interrotto nell’estate del 1623, perché il cardinal Alessandro Peretti gli commissionò la statua del David (anch’essa oggi alla Galleria Borghese). Gian Lorenzo poté riprendere il lavoro precedente nell’aprile dello stesso anno, avvalendosi dell’aiuto di un suo assistente di bottega, Giuliano Finelli, per gli elementi vegetali alla base della statua. L’opera venne conclusa nel 1625, riscuotendo subito un enorme successo di pubblico che la consacrò a capolavoro della sua intera produzione scultorea, se non della sua intera vita.

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Anch’essa riprende un episodio delle Metamorfosi di Ovidio: Apollo si vantava di aver ucciso il terribile serpente, figlio di Gea. Il dio Eros, divenuto geloso, decise di vendicarsi e scagliò una freccia d’oro ad Apollo per farlo innamorare della ninfa Dafne, figlia del dio-fiume Peneo. A quest’ultima, invece scagliò una freccia di ferro per l’odio. Con effetto immediato di queste due frecce, Apollo iniziò a rincorrere Dafne e proprio mentre stava per afferrarla, la ninfa invocò il soccorso del padre, affinché la tramutasse in qualcosa per non sopperire all’amore non corrisposto del dio. Il padre intervenne, tramutando Dafne in una pianta d’alloro, che da quel momento in poi divenne il sacro simbolo del dio Apollo. Con quest’opera, Bernini raggiunse un dinamismo che era impensabile in scultura. Apollo è rappresentato nell’atto di afferrare la ninfa proprio mentre sta per trasformarsi in pianta d’alloro.

Tutto il peso e la forza del dio, con la muscolatura bene in vista, sono concentrati sulle mani e sul piede destro che poggia saldamente al suolo come per darsi slancio all’inseguimento, mentre la gamba sinistra è sollevata. Il suo movimento è messo in evidenzia dalle ciocche di capelli ondulate e dal mantello più opaco dell’incarnato, che scivolano all’indietro. Mentre il suo sguardo appare sbigottito da ciò che sta succedendo. Dafne è, infatti colta nell’attimo di trasformarsi in alloro. Dal suo sguardo si nota dolore per essere stata raggiunta da Apollo e sollievo per l’imminente trasformazione. Le sue gambe si stanno già trasformando in corteccia, dai capelli e dalle mani spuntano i primi ramoscelli con foglie di alloro. Mentre dai piedi, le radici della pianta. Il suo leggiadro corpo, ormai ancorato a terra, è spinto all’indietro come se la ninfa volesse fare un ultimo tentativo di allontanarsi dalla stretta di Apollo, ma ormai è inutile. La metamorfosi di suo padre, il dio-fiume Peneo è ormai compiuta. L’opera è fortemente ricca di pathos, dove il superamento dei limiti imposti dalla materia stessa è così sorprendente da costituire un episodio senza precedenti nel confronto con la pittura e anche qui il confronto con l’antico, ben evidente nel riferimento all’Apollo del Belvedere, è volto a tradurre la novità del mezzo espressivo. Bernini non si è preoccupato neanche di nascondere o correggere i difetti dell’opera che sono emersi di volta in volta negli studi dell’opera, perché aveva previsto i limiti del campo visivo dello spettatore, segno di una suprema abilità tecnica da parte dello scultore. Sul lato anteriore del piedistallo, su un finto cartiglio a forma di pelle di drago venne inciso un distico moraleggiante dell’allora cardinale Maffeo Barberini (futuro papa Urbano VIII):
“Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae fronde manus implet baccas seu carpit amaras.”
[Chi amando insegue le gioie della bellezza fugace riempie la mano di fronde e coglie bacche amare.]

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Alla fine del 700, nel corso di riallestimenti a Villa Borghese, a differenza delle altre opere di Bernini, il gruppo dell’Apollo e Dafne venne collocato al centro di una sala al pian terreno che prese il suo nome. Segno della maestosità e dell’importanza che ha sempre goduto nel corso della storia. Di fatto, su quest’opera si è scritto molto e il famoso distico di Maffeo Barberini fu il risultato di un presunto conflitto. Sappiamo, infatti che il suo committente, il cardinal Scipione Borghese andò a trovare Bernini nel suo atelier in compagnia di Maffeo e di un altro cardinale, il francese de Sourdis, il quale visto un bozzetto preparatorio dell’Apollo e Dafne criticò la sua mancanza di decoro, e la sua incompatibilità con la casa di un cardinale e dunque il distico di Maffeo Barberini sarebbe stato una sorta di correzione a quell’irregolarità, moralizzando l’opera e di fatto salvandola dalla censura.

Bibliografia
-Ovidio, Metamorfosi libro I;
-F. Baldinucci, Vita del cav. Gio. Lorenzo Bernino, scultore, architetto, pittore, Firenze, Vincenzo Vangelisti, 1682;
– T. Montanari, La libertà di Bernini: La sovranità dell’artista e le regole del potere, Torino 2016, pp. 8-13;
– M. Minozzi, Apollo e Dafne in Bernini, catalogo della mostra a cura di A. Bacchi e A. Coliva, Roma 2017, pp.176-178,

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