Dentro l’opera: la “Camera Picta” di Andrea Mantegna

di Laura Corchia

Durante la famosa e quasi mitica sfida raccontata da Plinio, Parrasio dipinse su un muro una finta cortina, tanto perfetta che il collega Zeusi gli chiese di scostarla per mostrargli cosa aveva dipinto.

Probabilmente, quando Andrea Mantegna entrò per la prima volta nella stanza cubica del torrione nord-orientale di Castel San Giorgio, che avrebbe in seguito assunto il nome di Camera Picta, pensò forse di poter superare quello sfoggio di bravura. Era il 1460 e la stanza si presentava come un’enorme superficie bianca, pronta ad accogliere un ciclo di affreschi che avrebbe reso la sua fama immortale. Mantegna studiò una decorazione ad affresco che investisse tutte le pareti e le volte del soffitto, adeguandosi ai limiti architettonici dell’ambiente, ma al tempo stesso sfondando illusionisticamente le pareti con la pittura, come se lo spazio fosse dilatato ben oltre i limiti fisici della stanza. Il tema generale è una celebrazione politico-dinastica dell’intera famiglia di Ludovico Gonzaga, con l’occasione dell’elezione a cardinale di Francesco Gonzaga.

Il pittore iniziò dalla volta con limitate campiture a secco, che riguardano soprattutto parti dell'”oculo” e della ghirlanda che lo circonda; si passò poi alla parete della Corte, dove venne usata una misteriosa tempera grassa, stesa a secco procedendo per “pontate”; seguirono le pareti est e sud, coperte dai tendaggi dipinti, dove venne usata la tecnica tradizionale dell’affresco; infine fu dipinta la parete ovest dell’Incontro, pure trattata ad affresco e condotta a “giornate” molto piccole, che testimoniano una lentezza operativa che confermerebbe la durata quasi decennale dell’impresa, indipendentemente da altri compiti che il maestro dovette assolvere.

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La stanza fu trasformata così in un tempio laico sorretto da pilastri e coperto da una volta soffittata a lacunari inghirlandati, al centro dei quali simulò una decorazione a rilievo con putti che reggono i medaglioni con le effigi degli imperatori romani. Culmina all’apice della volta simulata l'”oculo del cielo”, che apre lo sguardo alle nuvole e dal quale sbirciano nove angioletti, due gruppi di famigli e un pavone. La varietà delle pose è estremamente ricca, improntata ad una totale libertà di movimento dei corpi nello spazio: alcuni putti arrivano a infilare il capo negli anelli della balaustra, oppure sono visibili solo da una manina che spunta. Se non è chiara l’eventuale identificazione delle fanciulle con personaggi reali gravitanti attorno alla corte gonzaghesca (un volto muliebre è acconciato come la marchesa Barbara), esse sono colte in atteggiamenti diversi (una addirittura ha in mano un pettine) e le loro espressioni giocose sembrano suggerire la preparazione di uno scherzo, un episodio tratto dalla quotidianità nel solco della lezione di Donatello. Il pesante vaso di agrumi è infatti appoggiato a un bastone e le ragazze attorno, con volti sorridenti e complici, sembrano in procinto di farlo cadere nella stanza.

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Mentre la decorazione pittorica delle pareti est e sue è limitata alle sole finte cortine, sulle altre pareti queste sono raccolte e lasciano spazio a paesaggi accuratamente descritti e a scene di vita cortese.

Sopra il camino, le accuratissime pennellate distese a secco dal Mantegna ci conducono al cospetto della corte dei Gonzaga. Gli altezzosi personaggi sembrano non accorgersi della nostra presenza. Solo la nana, raffigurata ai piedi della Marchesa, ossa lanciarci uno sguardo impertinente. Per ovviare all’inconveniente della presenza del camino, il pittore ambienta la scena su una terrazza accessibile da una scalinata, sulla quale si dispongono i personaggi che chiedono di essere ricevuti. Il Marchese ha in mano una lettera ed è circondato dalla moglie, dai figli e dai più intimi frequentatori della corte.

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La parete ovest è detta dell’“Incontro”: sono rappresentati il marchese Ludovico, stavolta in vesti ufficiali, accanto al figlio Francesco cardinale. Sotto di loro stanno i figli di Federico I Gonzaga, Francesco e Sigismondo, mentre il padre si trova all’estrema destra: le pieghe generose del suo abito sono uno stratagemma per nascondere la cifosi. Federico è a colloquio con due personaggi, uno di fronte e l’altro in secondo piano, indicati da alcuni come Cristiano I di Danimarca (di fronte) e Federico III d’Asburgo(cognato di Ludovico II, poiché marito di Dorotea di Brandeburgo, sorella di Barbara) figure che ben rappresentano il vanto della famiglia per la parentela regale. Il ragazzo al centro infine è l’ultimo figlio maschio del marchese, il protonotario Ludovico, che tiene per mano il fratello cardinale e il nipote, futuro cardinale, rappresentando il ramo della famiglia destinato al cursus ecclesiastico. La scena ha una certa fissità, determinata dalla staticità dei personaggi ritratti di profilo o di tre quarti per enfatizzare l’importanza del momento.

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Sullo sfondo è riconoscibile Roma, fantasiosamente arroccata su un colle. Sono identificabili il Colosseo, la piramide di Cestio, il teatro di Marcello, il ponte Nomentano e le Mura aureliane. Mantegna inventò anche alcuni monumenti di sana pianta, come una statua colossale di Ercole, in un capriccio architettonico che non ha niente di filologico, derivato probabilmente da un’elaborazione fantastica basata su modelli a stampa.

Nel suo complesso, la Camera degli Sposi rappresenta una straordinaria prova della bravura di Andrea Mantegna. In essa, l’ambizioso sogno del principe diviene dunque pittura; la realtà si unisce all’arte, eternandosi nel segno del Maestro.

 

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