Artisti in bottega: formazione e prassi alle soglie dell’Umanesimo

Di Laura Corchia

In un celebre dipinto, Rembrandt ritrae un pittore mentre lavora nel suo studio. Quest’opera, quasi un manifesto della poetica del pittore, indica che la trasformazione dell’artista da artigiano a intellettuale è
ormai compiuta.

Con questa rivendicazione si chiude una storia che aveva visto la Bottega come il fulcro della pratica artistica e il centro della formazione delle nuove maestranze. La bottega era infatti intesa come luogo fisico del lavoro e l’insieme di competenze gerarchizzate che facevano capo al maestro.

Con la caduta dell’Impero Romano si verificò un collasso economico che portò alla progressiva scomparsa dell’articolazione di specializzazioni che caratterizzava la produzione artistica del mondo romano. Solo
l’attività edilizia mantiene tenaci legami con la tradizione classica.

I Longobardi, una volta giunti in Italia, mutuarono maestranze dalle popolazioni locali di cultura romana.
L’attività edilizia e decorativa era disciplinata negli articolo dell’Editto di Rotari, in cui tutto il vasto spettro
delle professioni chiamate in causa viene rubricato sotto l’etichetta di “magistri commancini”.

Le officine scultoree classiche vengono sostituite da quelle lapidarie, che realizzano sia il testo contenuto
nell’epigrafe sia la decorazione. Un esempio di tale attività ci viene dall’altare di Sant’Ambrogio a Milano realizzato da quel “Vuolvinus Magister Faber”. Il suo ruolo di primo piano è evidente dalla firma posta sul
lato e dalla raffigurazione che lo vede incoronato dallo stesso santo.

Dalla cronaca che ripercorre le vicende della costruzione dell’Abbazia di Montecassino apprendiamo che l’abate Desiderio fece giungere da Bisanzio maestranze specializzate nella decorazione a mosaico. Per volontà dello stesso, i molti giovani del monastero furono iniziati alle varie arti e per i lavori in oro, argento, ferro, bronzo avorio, stucco e pietra, fece giungere i migliori artisti. Le officine monastiche benedettine sarebbero poi continuate nella gestione dei monasteri cistercensi, mentre l’edilizia religiosa non monastica divenne appannaggio di famiglie laiche: a Roma e nel Lazio i Cosmati e i Vassalletto, in Italia Settentrionale i Campionesi.

Leggi anche  Paul Éluard: "T'amo". Con una fotografia di Alfred Eisenstaedt

Durante il Medioevo, il sapere antico sulle tecniche è contenuto nei ricettari. Già diffuse nel mondo antico, tali elaborazioni si affermano e si diffondono in età carolingia. Il più celebre di questi ricettari fu redatto nel
X secolo ed è intitolato De coloribus et artibus Romanorum: nei primi due libri in esametri tratta le tecniche di preparazione delle miniature, il terzo in prosa contiene una serie di ricette tratte dall’esperienza diretta di bottega e riguardanti la preparazione delle tavole, dei leganti e dei colori.

La fonte più preziosa di età romanica è costituita dalla Schedula diversarium artium, redatta da “Teophilus presbyter”. I tre libri di cui è composta trattano vari argomenti: le tecniche della pittura e della miniatura, la
realizzazione delle vetrate, la fusione dei metalli, la lavorazione di metalli nobili e pietre preziose.
Uno dei trattati più noti ed apprezzati nel Medioevo, è il Libro dell’Arte di Cennino Cennini, pittore toscano
attivo nella seconda metà del Trecento e allievo di un allievo di Giotto. Il testo si apre con una forte
rivendicazione del ruolo e della dignità della pittura e con il consiglio di affidarsi ad un maestro per poterla apprendere. Cennini consiglia di fare ogni giorno pratica con il disegno e squaderna poi una serie di consigli
e di ricette inerenti la pittura su muro e su tavola. Numerosi capitoli sono dedicati al disegno e alla preparazione della carta di supporto. Il pittore non tralascia, inoltre, consigli su come utilizzare i pennelli e
su come preparare i colori. La pittura ad affresco viene definita come “il più dolce e il più vago lavorare che si sia”.

Leggi anche  Il bacio secondo Jacques Prévert e Henri de Toulouse-Lautrec. Parole e immagini per descrivere un magico istante

Vanno ricordati, infine, i Commentarii di Lorenzo Ghiberti. In essi, lo scultore sostiene che l’artista per formarsi deve necessariamente conoscere la prospettiva, la storia, l’anatomia, il disegno e la medicina.

Dal XII secolo in poi, le professioni si organizzano in strutture corporative. Mentre al nord chiamavano Gilda, in Italia, a seconda delle aree geografiche, prendono nomi differenti:

1. Arti, in Toscana;
2. Paratici, in Lombardia ed Emilia;
3. Fraglie o Università nel Veneto.
A Firenze, l’appartenenza a tali associazioni era condizione preliminare per l’accesso alla vita politica. Le Arti erano poi distinte in “maggiori” e “minori”.

Delle Arti maggiori facevano parte: giudici e notai, di Calimala, cambiatori e banchieri, lanaioli, setaioli, medici e speziali, pellicciai e vaiai.

Le Arti minori erano composte dagli artigiani: beccai (macellai), calzolai, fabbri, maestri di pietra e legname, vinattieri, fornai, linaioli, chiavaroli, corazzieri e spadai ecc.

Dopo il 1295, i pittori entrarono nell’Arte dei Medici e degli Speziali, mantenendo però una posizione di “membro minore”.

I pittori potevano poi liberamente associarsi, in una sorta di patto di solidarietà. Un esempio di tale associazione è quella formata da Donatello e Michelozzo. In un documento presentato al catasto

apprendiamo che Donatello abitava in via degli Adimari e che all’epoca dell’associazione aveva 41 anni.

Benedetto Dei, nelle sue Memorie Istoriche, elenca con pazienza e puntualità le botteghe di artisti di Firenze negli anni ’70 del ‘400: si contano 35 pittori e 30 scultori.

La struttura della bottega era solitamente costituita dal maestro responsabile e da apprendisti, salariati, assistenti e maestri ospiti. Il maestro infatti poteva rivolgersi a colleghi particolarmente abili per occorrenze
specifiche. A Firenze un apprendista poteva avere tra i 14 e i 25 anni e al giovane veniva fornito vitto e alloggio, come prevedevano gli Statuti dell’Arte.
Poco sappiamo riguardo agli insegnamenti impartiti: è probabile che il giovane trascorresse la maggior parte del tempo a disegnare, come suggerito da Cennino Cennini.

Leggi anche  La storia della Sainte-Chapelle di Parigi

Spesso i primi collaboratori erano gli stessi familiari, come nel caso di Masaccio che si fa aiutare dal fratello per la realizzazione del Polittico di Pisa.

In Europa settentrionale, era diffusa e incoraggiata la mobilità dei giovani tra una bottega e l’altra per favorire gli incontri e le esperienze diversificate.

Per conoscere la conduzione generale della bottega ci si affida ai Libri dei conti: quello di Neri di Bicci è ricchissimo di informazioni, così come quello di Lorenzo Lotto e di Jacopo dal Ponte di Bassano.

Il rapporto con la committenza è particolarmente evidente nei contratti: griglie più o meno flessibili di impegni e obblighi, che costituiscono un strumento formidabile di conoscenza del ruolo sociale delle
maestranze.

Non è facile dire quali materiali e strumenti di lavoro erano presenti in una bottega. Utili a farsi un’idea Sono alcuni inventari: quello di Jacobello dei Fiore e, soprattutto, quello di Bartolomeo di Piero, orafo

fiorentino del ‘400. In quest’ultimo caso sono presenti catene, coltellini, forchette, croci, incudini, pietre, brocchette, mantici, gioielli ecc…

Tra gli oggetti non dovevano di certo mancare i “libri di modelli”, utili per gli apprendisti e per le
realizzazioni di routine e contenenti immagini di animali vari, oggetti, immagini botaniche e figure. Casi emblematici sono i taccuini di Pisanello e di Giovannino de’ Grassi.

Sono fortunatamente sopravvissuti numerosi inventari redatti alla morte di artisti: interessante è quello di Benedetto da Maiano, che distingue tra i pezzi conservati nella “bottega del Legname”, quelli che sono
“fuori dalla bottega del legname non lavorati”, quelli “nel Castellaccio” e “le cose che sono in bottega dei marmi”, badando anche a registrare separatamente le opere in terracotta e in legno.

Lascia un commento